Il nostro redattore Stefano Vernole ha intervistato per “Eurasia” Gianandrea Gaiani*.
Le chiedo innanzitutto un suo parere su come realmente si sarebbero svolti i fatti: chi materialmente ha ucciso i due pescatori indiani? E’ plausibile la versione di Nuova Delhi, che ne attribuisce la responsabilità ai due marò italiani?
La verità non è ancora ben definita, non è ancora ben chiara, quindi è difficile poter dare delle risposte complete a questa domanda, però io guardo i riscontri oggettivi: questi pescatori indiani hanno lamentato di essere stati colpiti da raffiche di armi automatiche a due miglia e mezzo dalla costa indiana, dal porto di Kochi, quindi più o meno all’altezza dell’ancoraggio che c’è davanti al porto e che viene usato dalle navi che vi entrano. La nave italiana, la Enrica Lexia, si trovava a oltre trenta miglia dalle coste indiane, aveva subito un avvicinamento ostile che poteva far presupporre un’azione pirata quattro ore prima, forse anche di più, intorno a mezzogiorno e mezza, in acque internazionali, al largo quindi; come hanno detto i nostri, questo attacco si è risolto con qualche raffica in mare che ha fatto allontanare il peschereccio. Invece l’attacco di cui parlano i pescatori, che avrebbe provocato i due morti, è avvenuto nelle acque indiane, a due miglia e mezzo, e non trentatré, dalla costa, e soprattutto è avvenuto verso sera, quasi al tramonto; quindi non combacia il luogo e non combacia il posto.
Cosa c’è invece di ambiguo nella posizione indiana? Tantissime cose, ad esempio il fatto che, guarda caso, l’ International Maritime Bureau (IMB) ha reso noto di aver avuto una segnalazione di tentato attacco pirata proprio in quel posto, a due miglia e mezzo al largo del porto di Kochi, da una petroliera greca, la Olympic Flair , che ha dato l’allarme all’IMB, al centro di soccorso marittimo di Mumbai, e alla Guardia costiera indiana. Allora non si capisce per quale ragione la nave che è stata coinvolta in un supposto attacco, nel luogo dove i pescatori dicono di aver subito queste raffiche che hanno ucciso due pescatori, viene lasciata tranquillamente andare per la sua strada, mentre invece viene invitata a presentarsi nel porto di Kochi la nave italiana che aveva anche lei comunicato un tentato attacco, ma in un luogo diverso, in acque internazionali e diverse ore prima. Qui non c’è un errore o un misunderstanding, qui c’è una malafede, confermata dal fatto che gli indiani si sono rifiutati finora di effettuare autopsie ed esami balistici dei proiettili trovati sulla barca, sul peschereccio e sui corpi dei due cadaveri. Questo crea più di un motivo per dubitare della buona fede degli indiani. Perché tutto questo, sul piano delle procedure di indagini, non viene fatto in modo professionale? Il motivo, come ho anche scritto sul “Sole 24 Ore”, può essere, a mio parere, uno solo: l’India, che si vuole presentare come una grande potenza, che è uno dei paesi emergenti, che vuole svolgere un ruolo di potenza navale nell’Oceano Indiano ed è in prima fila nel combattere la pirateria somala, vuole nascondere la pirateria domestica, che ha in casa. E’ vero infatti che nel subcontinente indiano sono frequenti gli attacchi ai mercantili, anche se sono attacchi diversi da quelli della pirateria somala, non sono organizzati, non si sequestrano navi ed equipaggio per chiedere riscatti; è una pirateria, quella indiana, più da cialtroni, di pescatori che di notte salgono a bordo delle navi alla fonda nel largo dei porti, razziano valori e contanti e se ne vanno. Questo tipo di pirateria è molto frequente lungo le coste del Bangladesh, ma ci sono in media almeno una decina di casi all’anno denunciati, più forse altri non denunciati, al largo dei porti dell’India; pertanto attribuire questa azione agli italiani serve a coprire probabilmente una realtà che l’India vuol nascondere, e cioè che anche lei ha i suoi pirati, anche se sono pirati raffazzonati che attaccano le navi alla fonda dentro le acque territoriali.
Se appare abbastanza evidente l’ingenuità della Marina italiana che ha consentito il fermo dei nostri due militari da parte della polizia indiana, ritiene che il Governo italiano, tanto esaltato dai mass media per la sua presunta autorevolezza in campo internazionale, si sia mosso tempestivamente e con la dovuta efficacia? Non era subito evidente la pericolosità di questa crisi diplomatica con l’India? Se dovesse protrarsi, ritiene possibili anche ripercussioni economiche per le nostre aziende che operano in India?
Andiamo con ordine. Io credo che la Marina abbia subito questa vicenda. Il comandante della nave mercantile non risponde alla Marina militare mentre i nuclei militari a bordo dei mercantili hanno una loro catena di comando, rispondendo alla base italiana che c’è a Gibuti, che è quella che gestisce questi team imbarcati sui mercantili, la quale risponde alla Difesa, al Comando della Marina a Roma, al COI, Comando Operativo di vertice Interforze. I marines italiani “San Marco” a bordo, non sono agli ordini del comandante della nave mercantile, il quale mantiene il comando della sua nave. Quindi quando il comandante della nave “Enrica Lexia” ha ricevuto la richiesta dalla guardia costiera indiana per entrare nel porto di Kochi per fornire dei chiarimenti, è lui che ha deciso di entrarci, facendo un errore madornale. Quindi il problema è l’ingenuità di fondo dell’armatore, ma soprattutto un vuoto di potere, un vuoto esecutivo del Governo italiano e del Ministero degli Esteri, perché nel momento in cui abbiamo deciso di imbarcare nuclei armati sopra navi mercantili per proteggerli da aggressori esterni, da pirati, bisognava mettere in atto delle procedure per cui una nave mercantile che viene attaccata in acque internazionali non si fa invitare da nessun paese ad entrare nelle sue acque territoriali per fornire chiarimenti. Il diritto internazionale parla chiaro: se una nave, di qualunque nazione, in questo caso italiana, viene attaccata o ha un incidente in acque internazionali, vale il diritto di bandiera, e cioè l’inchiesta la fa la legge italiana, non la fa la legge del paese più vicino con le sue coste. Questa è una legge che è precisa, internazionale e che il nostro governo, la Farnesina, avrebbe dovuto precisare ai mercantili che imbarcano scorte militari – io mi auguro lo abbiano fatto – o magari invece, solo ingenuamente, il comandante della nave ha ceduto alle richieste indiane. Ci dovrebbero essere delle procedure precise in questo senso e la Marina le ha subite, perché nel momento in cui la nave è entrata in quel porto indiano e la polizia è salita a bordo, addirittura qualcuno ha detto armi in pugno, di fatto il fallimento è stato della Farnesina. Il nostro ambasciatore in India avrebbe dovuto provare ad impedire tutto questo, perché la nave italiana è territorio italiano, perché un militare non può essere processato o interrogato dalla giustizia civile di un paese straniero. Gli unici che possono processare od inquisire i militari sono le autorità dello stato stesso del militare o i tribunali internazionali dell’ONU qualora si ravvisino reati o accuse di crimini contro l’umanità o crimini di guerra.
Per cui il comportamento indiano è totalmente arbitrario, non c’è nessuna legge che preveda che un nostro militare debba rispondere ad un giudice indiano o di qualunque altro paese, né che possa essere detenuto. Anche se per ora sono solo ospiti in un bungalow e non dentro ad un carcere, potrebbero presto cambiare le cose. L’errore qui è stato dell’Italia, della diplomazia italiana, del Ministero degli Esteri.
Per quanto riguarda il Governo, qui ci sono due problemi. Uno è quello pratico che abbiamo visto adesso, cioè la totale incapacità del nostro Governo di far valere il nostro diritto. Il secondo problema è mediatico. Gli unici che hanno parlato ai media internazionali sono stati gli indiani, per almeno due o tre giorni. Questo ha consentito che tutta la stampa mondiale desse un ampio risalto alla tesi indiana, alle opinioni e alla valutazioni indiane che, come abbiamo visto, hanno nascosto un comportamento non solo ambiguo per quanto riguarda il problema della petroliera greca che, probabilmente, è la nave coinvolta nell’incidente. Un comportamento sfacciatamente illecito nei confronti dell’Italia e dei diritti degli italiani e soprattutto dei militari.
Uno dei motivi per cui l’Italia sta mantenendo un atteggiamento morbido con l’India sono probabilmente i rapporti economici. E’ vero che noi abbiamo tanti affari con l’India ma anche l’India ha tanti affari con noi, ad esempio l’India ha bisogno della nostra tecnologia per costruire la sua portaerei. E’ anche vero che ci sono tantissimi lavoratori indiani che lavorano in Italia e che la gran parte delle navi mercantili che battono bandiera italiana hanno a bordo marinai indiani. Quindi è vero che l’atteggiamento morbido che ha l’Italia verso l’India, che sta compiendo un sopruso, può essere anche determinato dal giro di affari che abbiamo con quel paese, però credo che queste considerazioni economiche, per un Governo che decidesse di usare più coraggio e di salvare l’onore della Patria, debbano essere un’arma a doppio taglio, nel senso che anche l’India ha interessi a mantenere rapporti con noi. Non siamo solo noi ad essere interessati a fare business con loro, ma c’è anche un interesse indiano ad acquisire nostre tecnologie e anche nostri investimenti, di avere nostre imprese laggiù; quindi credo che l’aspetto del business dovrebbe essere un’arma da utilizzare in maniera quantomeno paritaria. Non solo un’arma con la quale l’India ci può imporre di “calare le braghe” ma anche un’arma che potremmo usare per indurli a cambiare atteggiamento.
Credo che purtroppo adesso partiamo da una situazione in salita, in grande difficoltà, C’è una possibilità, e la notizia è di qualche ora fa, rappresentata dall’invio del sottosegretario Staffan De Mistura, che è un uomo di grande esperienza internazionale e che potrebbe forse cambiare le cose.
Le ultime dichiarazioni del sottosegretario agli esteri indiano, Preneet Kaur, dimostrano ancora una volta che, di fronte ad un tentativo italiano di ammorbidire i toni, di trovare un’intesa, c’è una risposta indiana molto dura, e questo è anche un po’ il frutto del fatto che l’Italia non ha mostrato una grande determinazione nel voler risolvere la crisi, anche alzando i toni.
I nostri soldati, ricordiamolo, rischiano di essere processati in una situazione senza precedenti, in un paese che per altro prevede la pena di morte; noi italiani andiamo a fare pressioni sugli USA perché applicano la pena di morte e poi lasciamo che i nostri militari vengano interrogati e forse processati da un paese che la applica.
Il rischio più importante sul piano militare, è che tra i soldati italiani – e ricordiamo che questi due marò sono due soldati in missione, non erano là in vacanza – questa situazione porti la gran parte di loro a pensare, in maniera giustificata, per non dire giusta, che il loro lavoro e la loro tutela sono sacrificabili. Che li porti a sentirsi abbandonati da uno Stato che invece gli ha mandati in quella missione e che quindi ha il dovere di tutelarli. Se questo dovesse succedere, è un rischio pericolosissimo perché di fatto vai a demotivare e a far sentire figli di nessuno coloro che difendono l’Italia e gli italiani. Questo credo sia alla fine di tutto il danno peggiore che l’Italia, con il suo atteggiamento “calabraghista”, corre. Abbiamo tanti militari impegnati all’estero e sarebbe un pessimo segnale se pensassero di essere sacrificabili per due affari o per due contratti di export o per ragioni di opportunità diplomatica.
Non ritiene surreale che la Marina militare italiana debba essere impiegata per fare da scorta a navi private? Questa triste vicende non potrebbe essere l’occasione per portare all’attenzione pubblica il problema della pirateria, in particolare dell’occupazione straniera della Somalia, che inevitabilmente genera questo tipo di conseguenze?
La Somalia non mi pare che sia occupata, magari lo fosse! Se la Somalia fosse occupata da dei paesi che mantengono un regime di occupazione non ci sarebbero i pirati. Purtroppo la Somalia è terra di nessuno, è in mano ai signori della guerra, ad un finto governo che non controlla forse neppure gli uomini che dice di avere ai suoi ordini, è in mano a milizie islamiste che sono tra l’altro anche jihadiste per loro definizione, ha eserciti stranieri come quello del Kenya o dell’Etiopia che occupano alcune regioni ma senza riuscire a controllarle. Io credo che sia il caos somalo che ha determinato la pirateria, ma al di là questo io credo che il problema della pirateria in Somalia sarebbe risolvibile in 48 ore: invece di spendere un paio di miliardi di euro all’anno per navi da guerra che stanno laggiù per far finta di scortare navi mercantili e a far finta di contrastare i pirati, contro i 160 milioni di dollari che i pirati incassano dai riscatti, faremmo prima a dare direttamente in tasca ai pirati 160 milioni di dollari perché la smettano di attaccare le navi mercantili. Almeno spenderemmo meno. La mia è ovviamente una battuta.
Ma credo che il problema serio sia che le flotte internazionali che sono là si limitano a fare contrasto in mare ai pirati quando basterebbero 48 ore per spazzare via con le armi qualunque tortuga di pirati lungo la costa. Del resto il diritto internazionale lo consente, una risoluzione dell’Onu di alcuni anni fa prevedeva anche l’impiego di forze militari internazionali a terra contro i pirati, quindi attacchi sulla costa. Basterebbe la volontà per spazzarli via a cannonate dai mari e dalle coste. Però nessuno lo fa, schiacciati come siamo da logiche politically correct. Il problema dei pirati anzi lo foraggiamo, basti pensare che i pirati quando vengono catturati, siccome nessuno li vuole processare, spesso vengono poi anche liberati dopo essere stati nutriti. Insomma, la gestione della guerra, chiamiamola così, contro i pirati somali, è una vergogna per l’intero mondo civile perché ci stiamo facendo prendere in giro forse da 4-5 mila somali che sequestrano, spesso uccidendo, usando violenza a dei civili; perché i marinai imbarcati sui mercantili sono dei civili, ricordiamolo.
Detto questo, che riguarda un po’ il preambolo alla domanda che mi ha fatto, io credo che l’impiego della marina, dei marinai del San Marco per proteggere i mercantili sia una misura utile anche se non esclusiva, nel senso che tutti i paesi hanno dovuto affrontare il problema di proteggere i mercantili perché le flotte da guerra non sono in grado di proteggerli tutti. La gran parte dei paesi hanno optato per l’imbarco di guardie private, di security contractors, società private, ex militari di solito, che fanno questo mestiere.
La Francia ad esempio imbarca dei suoi soldati sui suoi mercantili. L’Italia ha scelto una legge che consente entrambe le cose, ma finora gli unici ad essere impiegati sono i fanti di Marina, perché il regolamento che dovrebbe accompagnare la legge per consentire l’imbarco di guardie private non è stato ancora messo a punto. E’ anche emerso che c’è una forte resistenza nella Marina a consentire che questo lavoro venga affidato a dei privati, cioè che gli armatori possano affidarsi anche a delle guardie private. E’ una gestione che la Marina cerca di avere per sé.
L’impiego di contractors privati, o di militari armati come nel caso francese, sui mercantili è un sistema che ha risolto il problema nel senso che tutte le navi che hanno a bordo personale di scorta militare o civile non sono mai state sequestrate e quando c’è stato qualche tentativo di attacco i pirati hanno subito cambiato idea appena hanno visto che dalla nave gli sparavano addosso dei professionisti che sapevano sparare e che spesso sapevano centrare il bersaglio.
Quello delle scorte è un sistema di difesa passiva che protegge le navi ma non risolve ovviamente il problema della pirateria, non elimina i pirati, non li insegue, non gli dà la caccia, protegge la singola nave. E’ un sistema efficace che ha un costo per gli armatori, competitivo rispetto alle polizze assicurative che devono pagare per proteggersi il carico, la nave e l’equipaggio dal transito in acque controllate dai pirati. Tutto questo va bene finché queste navi mercantili mantengono la loro sovranità nazionale, rimangono in acque internazionali o ormeggiano in paesi dove c’è un accordo in base al quale i nostri militari possono scendere e aspettare la nave successiva.
I militari italiani hanno questa base, per questo tipo di attività, a Gibuti, poi scendono dalle navi alle Seychelles, oppure nello Sri Lanka oppure in Oman, a seconda delle rotte che percorrono le navi che entrano o escono dal Mar Rosso, e poi salgono sulle navi che fanno il percorso opposto. Nel momento in cui, come è accaduto per la “Enrica Lexia”, una nave viene convinta da un altro stato, viene invitata ad entrare nelle sue acque internazionali per subire addirittura un processo, un’ azione penale, a questo punto è chiaro che ci si trova in una situazione difficilmente gestibile perché abbiamo non solo i marinai ma addirittura i militari finiti in una situazione ingestibile e che è illecita sul piano internazionale.
Finisco con una domanda: se fossero stati altri soldati, non italiani, ma francesi, inglesi, americani, – in tal caso ci sarebbero già due portaerei e una mezza flotta davanti al porto di Kochi – , l’India avrebbe avuto lo stesso atteggiamento irrispettoso ed irriverente in violazione di qualunque legge internazionale che ha avuto in questo caso con gli italiani?
* Gianandrea Gaiani ha seguito sul campo tutte le missioni militari italiane. Dirige Analisi Difesa, collabora con i quotidiani Il Sole 24 Ore, Il Foglio e Libero ed è opinionista del Giornale Radio RAI e Radio Capital. Ha scritto “Iraq Afghanistan: guerre di pace italiane“